giovedì 19 maggio 2011

Credere in qualcosa

Dicono che noi rivoluzionari siamo romantici. Si è vero lo siamo in modo diverso, siamo quelli disposti a dare la vita per quello in cui crediamo.Ernesto Che Guevara
Credere in qualcosa. Io credo in molte cose. Da questo punto di vista potrei definirmi politeista, se non fossi cosciente del mio astio verso le definizioni.
Credo nella sveglia, la mattina, che mi riporta in vita dopo il consueto viaggio notturno nelle affascinanti grotte dell’anima.
Credo nella musica emessa dall’autoradio della mia macchina quando sono incastrata dal rosso di un semaforo, e mi domando se non sarebbe meglio un bel giro in bicicletta, ma poi, ingrano la seconda e alla prima curva a sinistra prendo una buca e maledico l’asfalto di questa città.
Credo nel domani, perché oggi… mi fa più comodo così.
Credo nelle persone che incontro nella sfilata quotidiana di volti sconosciuti. Credo che anche se non ti ho identificato, e non ho capito bene chi sei né come o dove ci siamo conosciuti, salutarti e ricambiare il tuo sorriso è stato comunque piacevole e non mi è pesato affatto.
Credo nei libri che mi hanno prestato e che in tutta onestà so non leggerò mai. Credo che il giorno che dovrò restituirli ci sarà un vuoto sul mio comodino e che in qualche modo andrà riempito.
Credo che credere sia un modo per sentirsi ancorati quando tutto sembra andare alla deriva, quando ti accorgi che sei salpato da troppe lune per poter tornare indietro, e allora puoi solo proseguire con coraggio e amare le vele della tua barca come fossero i tuoi propri polmoni.
Credo che la cultura e l’arte facciano parte dell’equipaggiamento tanto quanto le vele e un abile timoniere.
Credo nel ballo che rigenera i movimenti e nella musica che li sa abbellire anche quando i passi sono incerti e chi ti sta di fronte in realtà sta ballando per i cazzi suoi.
Credo nelle idee più pazze, credo nella rivoluzione di un medico che preferì morire in piedi piuttosto che vivere in ginocchio.
 Credo nella terra, ma non credo nei padri. Credo che esistano ma che io non lo saprò mai.
Credo che la terra non sia nostra, ma che comportarci come se lo fosse ci sollevi da molte responsabilità. Seppur del tutto erroneamente.
Credo nel pomeriggio che mi porta a scrivere ciò in cui credo. Credo che non riuscirei a farne a meno. Nemmeno volendo.
Credo che la guerra serva all’uomo per sentirsi più vicino alla vita il tanto giusto che consente ad altri di arricchire la loro.
Credo che per avere dei figli sia necessaria una dose ingente di follia. Credo che i figli questo lo scoprano poco prima di assaporare la saggezza che si nasconde dentro la follia. Si tratta solo di sopravvivere in quel lasso di tempo.
Credo che restare nelle situazioni complicate sia un atto d’amore verso sé stessi, più che verso gli altri.
Credo che fuggire nelle situazioni complicate sia un atto di vigliaccheria e di ingratitudine, e che sia poco saggio abbandonare una parte di sé tra le gesta di un passato rinnegato. Perché è quella parte che poi torna sempre negli incubi la notte. E credo che gli incubi non piacciano a nessuno.
Credo che il mondo possa fare a meno dell’uomo, ma non viceversa.
Credo di aver detto molto di ciò in cui credo, e credo anche che voi possiate averne abbastanza.
Credo che vi spetti un grazie per avermi ascoltata, e se non lo avete fatto, beh, grazie lo stesso, perché io credo che ognuno sia libero di ascoltare ciò che vuole. Quindi grazie per la vostra libertà, in entrambi i casi. Io ho finito di elencare. Ma non certo di credere.

L'arte di annaspare

L’epoca è poca colpa.
L’etica solletica i palati
Delicati, fendendo a colpi
Di buon senso tutto il
Marcio degli scarti
Da ingerimento rapido.

Ripido, il collasso da noia
Si fa antipasto per musiche
Concitate, e non serve
Adagiare sigarette sulle
Labbra per saggiare l’aria
satura del finire d’agosto.

Rimane posto per un ultimo
Richiamo, prima del concerto:
la sigaretta spenta,
la chiave stretta in una mano,
e in mezzo al culo la speranza di trovare
un amico spalmato sul tuo divano
che faccia da sfondo al resto del mondo,
e in fondo allo stomaco
nascondere una vigliaccata:
non dirgli che l’esistenza così
è dilapidata, che l’inedia non controllata
gli ha fatto il nido dentro al cuore
e che la vita non disputata
tra non molto gli muore.

Tu, codardo, ti rinfranchi del suo male
Ringraziando che ad un altro
Sia toccato in sorte
Il puro e semplice respirare
Mentre a te, l’ingrata arte di annaspare.

venerdì 15 aprile 2011

Uomini liberi

“S'ommine es nassiu liberu, e in cada lo'u est'incadenau” / “L’uomo è nato libero, e dappertutto è in catene” 
(Jean Jacques Rousseau, Contratto sociale)


No 'istionavana sa mea limba, ma los 'umprendio. V'este istettiu un momentu, 'i no iscio 'antu es durau, e deo mi so 'onnottu in thos orcos inthoro, 'i podiana finas no ethere orcos, ma semplices ispunciones a uve abbarrare accanciau 'ene m'istroppiare. Appo provau s'emozione de comunicare in thu silenziu de un'incomprensione, tottu su 'i ummos provande paris.

Non parlavano la mia lingua, ma li intendevo. C'è stato un istante di indefinita durata nel quale io mi riconobbi nei loro occhi, che potevano anche non essere occhi, ma semplici appigli ai quali restare agganciato senza lacerazione. Provai l'ebbrezza di comunicare attraverso il silenzio di un'incomprensione, tutto ciò che di comune stavamo provando.



 Teniada pa'u itte a'ere 'utha situazione in thu tipicu modu de 'onnossere su 'i no es 'onnottu, 'i medas vortas ai provau.
Nos este 'olada a innantis tottu s'istoria de th'ommine e de su suo istuppidu modu e gherrare po vinchere sos atteros, e es nassiu solu un'arrisciu, minore, derettu serrau in cuth'uttiu de eternu ludu, muttiu fraternidade.

Poco aveva a che fare quella situazione col tipico approccio al "diverso" di cui spesso avevo fatto esperienza. 
Ci passò davanti tutta la storia dell'uomo e del suo ridicolo lottare per sopraffare, e nacque spontaneo un breve sorriso immediatamente racchiuso in quella goccia di eterno magma, chiamato accordo.




Nos semmos a'attaos tottus in cuve. Po casu o po destinu, 'ene unu Télos, ma in tha fine pintada in th'animu. Sa natura nos ada muttiu in thu 'oro e tha notte: nos semmos tremmios, sa terra si che udi urruende, nos es partu 'i su 'elu si ch'udi urruttu da unu momentu a th'atteru e nos aiada pistau 'umente minusos iscrappiones in thu nidu 'ene nisciuna importanthia.
M'ammento sos 'oros tremmende e sas ancas non chethiana a si moere de 'antu ummos timmende.

Ci ritrovammo tutti lì. Per caso, o per destino, senza un Télos, ma con la fine tatuata nell'animo.
La natura ci chiamò a sé nel cuore della notte: fu come un sussulto, la terra ebbe un cedimento, pareva che il cielo sarebbe caduto da un momento all'altro e ci avrebbe schiacciato quali piccoli insignificanti insetti nel nido.
Ricordo che i cuori sobbalzarono, e le gambe si irrigidirono per la paura. 

Ammos intessu mammai abbo'inande, addolorada e tradia, voliada 'i sa sorrastra sociedade l'arede torrau sos sequestraos. M'ammento itha pranghende abba proina e terra, e 'uthu ludu bruttu a chethiu a torrare a vivu in nois sa vida perdia po sempere. Da ermes e maripossas, maggiande sas alas in tohs vridos de thas ventanas, no che semmos fuios volande cara 'uthos lamentos 'i no ammos chethiu a evitare.

Sentimmo il grido della Madre, che straziata e tradita voleva indietro gli ostaggi della sorellastra società. Ricordo il suo pianto di pioggia e terra, e quel fango lurido ebbe la capacità di resuscitare in noi la vita perduta da sempre. Da larve a farfalle, sbattendo le ali contro i vetri delle finestre, volammo via in direzione di quei lamenti ineludibili.



Ammos 'urtu in ancas 'i pariana battoro infecces de duas, ammos postu finas sas manos po to'are vene su ludu, 'ummente po a'ere intendere si'ura e to'are sa vacce de mammai nostra. Ummos arribbande.

Corremmo con gambe che sembravano quattro anzichè due, servendoci delle mani per raggiungere il massimo contatto con la fanghiglia, come per rassicurare e accarezzare il volto di nostra Madre. Stavamo arrivando. 



No che semmos volaos a foras, 'olande in thas 'erpaduras de thos muros e de thas portas, liberaos de tohs vestires e de tha vacciola de cada die. Isciurthos, l'ammos finia affurriu de un'arvore 'i mammai nos ada ammostrau in amore e preoccupada.

Volammo fuori, passando attraverso spiragli di muri e di porte, affrancati finalmente dagli abiti e dal trucco quotidiano. Scalzi, finimmo tutti radunati intorno all'albero che la Madre ci indicò premurosa e trepidante. 



Semmos torraos a terra ismarrios, sas vacces isciattas 'ene rimediu, e in thu 'oro astrintu in thas arradiccas de 'uthu piggiu de thas mammas.
Ismarrios e mortos, ma liberos.

Atterrammo stanchi, i volti sfatti senza rimedio, e col cuore stretto tra le radici di quella cara corteccia materna.
Esausti, ma finalmente liberi.
Fine modulo



Soldato della notte

Girare dietro l'angolo
di una giornata sbagliata
ed imbattersi in un soldato
che indossa uno scudo
fatto di corde e legno
armato di solo plettro
a combattere l'indifferenza
del grigiore da strada
dalla sudicia trincea di
un palco immaginario
che lo solleva appena di poco
dal pattume sull’asfalto

Di fronte a sé un elmo
riverso al suolo
colmo di rame
oggi non vedrà l'oro
e forse loro non vedranno lui
ma io che l'ho visto
appena voltato l'angolo
di una giornata sbagliata
ve lo voglio raccontare.

Stringeva nel pugno
le note conosciute
nei suoi viaggi per 
l'Europa, e tutte
le librava dalle dita
accartocciate sui tasti
donandole alla notte
col suo barrè elegante
e donne chissà quante
per quei sospiri
di esilio e solitudine.

L'abitudine l'ha portato 
a cantarle nel soffio
di un pentagramma
e non ne farà certo
un dramma se al posto 
di un soldo bucato
gli offrirò questo canto
nato dalla mia penna

Senza pena di illusione
resterò nell'ombra di una
sua canzone e questo biglietto
piegato in quattro
che ora lascio scivolare 
ai piedi del suo altare
volando via veloce, ancora
intrappolata dalla sua voce
di inverni e vino, volerò dove 
le gambe vorranno andare
portandomi a sognare
dietro l'angolo di una
giornata nata sbagliata
e morta in lotta
per un po’ di pace.


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Il privilegio del nomade

Cos’è la polvere, se non uno scarto del tempo che passa? Che cos’è l’amore, se non uno sguardo sul tempo che resta? E che cos’è il viaggio, se non un misto di polvere e amore che giocano a contendersi il primato sugli eventi e sugli incontri della vita che ancora non è stata detta?

Vita straniera: quella che non si racconta per buona educazione. Un nome da viaggiatore e indosso un’etichetta: “cercasi”. Tutto qua. Il privilegio del nomade si chiama Imprevisto e arriva quasi sempre accompagnato da una musica randagia. Un gruppo di suonatori senza casa dedica ai passanti la propria polvere, il proprio amore. Tutti si voltano verso di me, mentre mi unisco al loro canto di cui, unico, padroneggio le parole. Una stretta di mano, un abbraccio e qualche patriottica birra dall’altra parte del palco. Si riparte.


Il privilegio del nomade si chiama Alba. Che tu la faccia o che lei ti faccia a giorno non fa differenza. Ormai ci si  conosce così bene che è sfumato l’imbarazzo dei convenevoli. E l’alba ti scuote fin sotto le ossa con la sua irriverente ala rossa a dirti che è tempo di uscire dal grembo della notte e di scontare la pena di un’altra giornata vestita d’incognita.


Tra le bancarelle di un rustico mercato incontro le nonne di paese intente a scegliere gli ingredienti per la pozione di giornata. Un sole alto da inizio mattinata svela i colori selvaggi dell’uva accatastata a grappoli sul ciglio di un simpatico bancone. Se la ride il vignaiolo con la faccia da ubriacone mentre stacco un acino e lo levo al cielo per guardarci dentro. Uno spintone fa atterrare il mio caleidoscopio a terra, faccio come per voltarmi ma subito qualcosa mi ferma. Scopro poco più avanti una donna vestita di rosso e dalla pelle ramata che intreccia i capelli di un bimbo, dolcemente concentrata. Mi avvicino e resto incantato ad osservare come le sue dita mi ricordino una marmellata di fragole e ciliegie da spalmare sopra una fetta di pane abbrustolita. Un altro me la inviterebbe volentieri a fare colazione, ma alle volte è preferibile un passo indietro ad un’azione da copione.


Il privilegio del nomade si chiama Ospitalità. Ospitale è l’ombra  di un vecchio albero ignorato, ospitale è il seno di una mantide con cui non hai osato, ospitale è il vizio del fumo quando ti senti disorientato. Mi siedo all’ombra di un albero: dalla corteccia si direbbe un tipo scorbutico con gli sconosciuti, invece è solo la vetrina dell’apparenza. Accendo una sigaretta e sbuffo via un filo di lana grigia che va ad incastrarsi a cavalcioni sopra un ramo storto. Una goccia mi cade sul volto, un’altra rimbalza sulla mia mano, e a piccole decine mi assalgono come solletico, per ricordarmi che è già ora di incamminarmi. Piove quel tanto che basta per farmi essere altrove. Com’è generoso, il tempo, delle volte.


Il privilegio del nomade si chiama, buffo no? Si chiama: Anonimato. Nessun vincolo esteriore col proprio passato. Il nomade è nomade perché non ha mai dimenticato ma sradicandosi almeno non deve farci i conti tutti i santi giorni. I conti non tornano, e si resta sempre in debito coi ricordi. Il nomade sia benedetto perché non ha mai dimenticato. Senza nome mi aggiro per la via di un sentiero nascosto, tipiche case da periferia cedono il posto ad un piazzale al quale mi accosto senza indugiare. Subito riconosco la stasi pomeridiana addormentata sulle panchine. Disposte a fila indiana ci sono tre bambine che giocano a saltare dentro a un cerchio fatto di sassi. Ad ogni salto la fila si allontana fino a quando lo slancio diventa rincorsa. Lentamente appoggio la borsa e mi avvicino ad ammirare un gioco che da bambino non ho mai pensato di inventare. Un mio starnuto improvviso interrompe il loro divertimento. Impaurite scappano via dietro a un muro di cemento e di rimando mi ricordo di quel gioco in cui contavi fino a cento per poi andare a cercare più che gli amici il loro nascondimento.  Molti sono rimasti nascosti anche anni dopo. Altri si sono fatti trovare, e altri ancora hanno fatto la fine del topo, morto in fondo ad una tana di inganni.


Il privilegio del nomade si chiama Parsimonia. Economia di gesti e di parole. Tutto ciò che serve è un vocabolario fatto di quella polvere e di quell’amore di cui il viaggio stesso si compone. Soltanto questo, perché il resto non ci sta sulle spalle del viaggiatore. Offro alle fanciulle intimorite una filastrocca del mio paese, senza pretese da conquista. Le donne sin da piccole sono anime testarde. Una di loro sorride, mi segue con gli occhi. Aspetta serena che io mi blocchi per regalarmi felice il suo applauso.


È scesa la notte, e il Buio è il massimo privilegio per un nomade. Mi fermo qui, il resto non farà certo storia ma fa vita. E questa notte voi dovrete immaginarla fino in fondo. Non ho altro da dire se non… a domani, mondo.

giovedì 14 aprile 2011

Sogno d'amore

Appiccicati, incollati, imbalsamati dentro a un morbido abbraccio. Così eravamo, e così mi piace ricordare quella notte di rivelazione, di intimo coinvolgimento e di sospiri interminabili.
Avevo freddo e lui mi scaldava con le mani, con le gambe tutte attorcigliate alla mia vita, le gambe, attorcigliate, e le mani in cambio di baci.
Baci di rivolta: insieme, ci stavamo ribellando alle nostre solitudini, forse mischiando bisogni e sentimenti, paure e voglie. Tutto insieme, in quella notte di gelo e tepore. Non c’erano ancora le foglie sugli alberi.
Così ricordo, o così mi pare.
Siamo stati insieme, siamo stati. Per un poco abbiamo coniugato i verbi al plurale, e declinato i più dolci aggettivi l’uno per le orecchie dell’altro. Ci siamo arresi, per gioco, mettendo un poco da parte la serietà dei battiti del cuore, e per una volta ci siamo spinti oltre la luce, madre delle linee e dei contorni definiti.
Le strade erano buie, le buche ci facevano sobbalzare più del torbido nero in fondo agli occhi. L’orologio, non lo abbiamo mai guardato, e forse è stata questa la nostra salvezza. Ci siamo regalati del tempo senza pesarlo, ma entrambi ne conoscevamo il valore ed eravamo ubriachi di gratitudine per questo. Ci siamo tenuti l’orgasmo in pancia, e i vestiti sulla pelle. Niente fu sesso, ma la pelle era calda dello stesso calore dell’estate, e il suo profumo l’avevo comunque appresso: ogni boccata di fumo mi restituiva la misura d’un respiro non condiviso. Se solo avessimo saputo che quella sarebbe stata l’ultima … ci saremmo versati l’amore nei calici di vino, e avremmo bevuto per spegnere tutti i forse che ora mi assalgono come zanzare di laguna.
Morimmo di una morte dolce, incontrastata, dentro le braccia d’acciaio della notte. Ci schiacciò la normalità con le sue pesanti travi, e morì in noi l’ingenuo volo che compie l’anima l’istante prima di posarsi sul cuore di qualcuno.
Così, mi pare di ricordare, andò quella volta, l’ultima, in cui amare fu leggero e incolto, e l’essere brillava nuovo come i giocattoli mai scartati dai loro imballaggi. Fu così che andò, e dimenticare sarebbe come negare di avere mani per scrivere e piedi per danzare scalzi. Andò così, scivolosamente ghiaccio non rotto, nessuno si tagliò di dolore, nessuno vinse quella notte. Nemmeno l’amore.

Liberi da circostanza

“Sana e salva, grazie!”. Sana e salva un corno! Ripetevo fra me e me come un mantra, ripensando a quella conversazione di volata. I classici motti rituali nei quali in sintesi: ci si congeda sperando che all’altro vada un po’ peggio rispetto a noi, ma soprattutto di essere usciti vincenti dal consueto duello verbale. 
Eppure, chissà cosa avrò mai voluto e potuto comunicare con un’espressione tanto infelice, del tipo “me la cavo e ostento una dignitosa sopravvivenza sparando formule colloquiali a caso, grazie!”.
Non riuscivo a non cimentarmi in una diagnosi freudiana dello stridente lapsus. L’imbarazzo suscitato dal meccanico rewind aprì in me l’improvviso tunnel di un antico ricordo.

Gita domenicale, fuori stagione. Villetta al mare, proprietà di amici dei miei genitori. A giudicare dalla scarsa nitidezza delle immagini non dovevo avere più di sei o sette anni. Ricordo l’interno di quella casa quasi fosse stata una barca. Gli adulti stavano fuori, sotto al pergolato dell’ingresso, ovvero la prua; io invece ero più incuriosita da quell’atmosfera così intima e calda, al riparo dalla luce invadente del pomeriggio e soprattutto dal tipico timbro di voce dei miei, quando erano in vena di millantare la perfezione del loro -nostro- guscio domestico.
Ma le mura, e soprattutto gli arredi di quell’ambiente parlavano da soli! Quella casa era veramente un nido, una noce di legno, scuro come occhi.
Proprio quegli occhi che, inaspettatamente, mi stavano fissando da un po’.

- Come stai, Martina?
Per ovvi motivi, a quell’epoca nessun lapsus che tenga avrebbe potuto portarmi a rispondere: “Sana e salva, grazie! E tu?”. Infatti, non risposi nulla. Continuai a fissare l’iride ambrato di mogano rotondo e liscio, le labbra aperte d’un sorriso vivo e ampio e le ginocchia forti, piegate solo per me, per osservarmi più da vicino, e per acconsentirmi di conservare poi il ricordo di quella finestra rimasta incantata anche col passare degli anni.
Lo sconosciuto mi rapì il viso tra le mani e trionfò con un bacio tra i miei capelli ancora arruffati dal lungo viaggio in macchina. Poi volò via, su per le scale. Ma non con l’atteggiamento di qualcuno che avesse di meglio da fare, no. Mi lasciò sola per permettere che mi ambientassi autonomamente. Non si stava liberando di me, al contrario: stava liberando me dal gravo di una circostanza.
Doveva essere il figlio maggiore. Nonostante non ricordassi quel ragazzo, avevo ormai preso coscienza del fatto che molti amici dei miei potessero avermi vista soltanto una volta, magari al battesimo o ad uno dei primi compleanni. Comunque, sebbene io non lo avessi riconosciuto, lui mi conosceva già, e sapeva anche il mio nome! Ma soprattutto, dava l’impressione di non subire l’onere della nostra presenza estranea.

Passò un tempo indeterminato, o forse in questo punto il ricordo perdeva di consistenza. Probabilmente continuai ad osservare ogni dettaglio, finché la mia attenzione non venne catturata da un acquario ovale con all’interno il pesce rosso più grande che avessi mai visto! Galleggiava immobile e mi fissava rilassato, come se potesse leggermi nel pensiero. Da piccola ignoravo che anche gli uomini fossero degli animali. Nelle storie lette prima di andare a dormire i protagonisti spesso erano proprio gli animali, ma io avvertivo sempre un senso di superiorità. Era come se percepissi l’irrealtà di quei caratteri antropomorfi. E la mia alterità.

All’improvviso sentii dei passi di corsa provenire dalle scale e riconobbi per la prima volta il richiamo della libertà. Che disse soltanto questo:
-Vado a fare una passeggiata, torno tra un po’! Così poi mi racconti che vi siete detti tu e Cleo!
Cleo! Come il pesciolino del cartone di Pinocchio! Quello che danzava insieme a Figaro quando gli orologi a cucù segnavano lo scoccare dell’ora!
Quanto mi piaceva quel nome.

L’uscita di scena del mio amico attirò inevitabilmente su di me l’interesse generale.
- Martina! Vieni qua fuori, dai, non ti sei neanche fatta salutare!
Mi reclamavano, seppure a scoppio ritardato. Dovetti onorare i miei ospiti per l’invito rispondendo a tutte quelle domande che solitamente si fanno ai bambini non così piccoli da non capire nulla ma neanche così grandi da capire tutto.
Ormai il pomeriggio era stato scansato da un imbrunire precoce, al quale l’estate mi aveva disabituata. Il cielo si rabbuiò, ma non soltanto perché si era fatto tardi: Il tramonto aveva portato con sé un plotone di nubi corpose. E fu subito temporale.
Ci rintanammo dentro, nell’antro di quella caverna primordiale immersa nel verde del quartiere residenziale. Era giunto il momento del caffè, che per me corrispondeva alla merenda.
Mi annoiavo, e Libertà non tornava. Iniziai a domandarmi dove fosse, con tutta quella pioggia. Avevo come la sensazione che mi avesse imbrogliata, e l’amaro presentimento di una promessa infranta: non avrebbe fatto in tempo a salutarmi prima della partenza. Inoltre, sapevo che i ragazzi grandi non dovevano chiedere il permesso per ritornare tardi.

Dopo un’ora, o forse meno, smise di piovere. Lentamente ci avvicinammo tutti verso la porta d’ingresso ad osservare il cielo, come timide lumache. Proprio in quell’istante si sentì il suono di una scia percorsa sulla ghiaia e vidi Libertà che poggiava la bicicletta contro la palizzata di fronte e si avvicinava felicissimo verso casa. Era completamente intriso d’acqua. E rise così di gusto nel vederci al riparo che quasi provai un senso di primitiva vergogna.
Con la sua risata, Libertà mi aveva appena insegnato la disobbedienza. E forse, anche qualcosa di più.

Rimase lì in piedi davanti a noi, e prese a raccontare del suo mondo universitario (“università”: da piccola questa parola suscitava in me invidia, bramosia forse) e i miei erano davvero felici mentre parlavano con lui. Nessuno sembrava far caso alle gocce che dai capelli gli colavano sul viso. Questa anomalia mi insospettì. Non lo rimproverarono! Anzi, sembravano tutti fieri di lui, e quell’energia che aveva affascinato me per prima infondeva negli altri un forte senso di rispetto.
Mentre loro continuavano coi discorsi da adulti, nei quali avevano invischiato anche il mio amico segreto, riprese lentamente a piovere. Come se il cielo avesse ancora qualcosa da dire. Ma nonostante ciò, la conversazione proseguì indifferentemente sotto al pergolato, fino a che …

Approfittando della generale distrazione, sfruttai l’ignara complicità di Libertà. Lentamente, con la pazienza di ogni monelleria che si rispetti, mi allontanai da loro, avvicinandomi sempre più alla fine della tettoia. Finalmente, sentii le prime gocce arrivarmi alle caviglie, poi sui capelli, infine sulle mani aperte, verso il cielo. Passarono infiniti secondi. Soddisfatta fradicia, riuscii solo a dire:
-Perché non venite qui a parlare? È bellissimo!

Solo di una reazione serbavo intatto il ricordo. L’unica, che mi fossi curata di suscitare. E fu di nuovo il sorriso accogliente di una mistica intesa, suggellata da un silenzio soverchiante. Lui, forse un po’ in colpa per avermi dato il cattivo esempio, in realtà era orgoglioso di me.
Le nostre vite si erano riconosciute e scelte all’insaputa di tutti. Mi ero innamorata. E quella, fu la mia dichiarazione d’amore.