“Sana e salva, grazie!”. Sana e salva un corno! Ripetevo fra me e me come un mantra, ripensando a quella conversazione di volata. I classici motti rituali nei quali in sintesi: ci si congeda sperando che all’altro vada un po’ peggio rispetto a noi, ma soprattutto di essere usciti vincenti dal consueto duello verbale. Eppure, chissà cosa avrò mai voluto e potuto comunicare con un’espressione tanto infelice, del tipo “me la cavo e ostento una dignitosa sopravvivenza sparando formule colloquiali a caso, grazie!”.
Non riuscivo a non cimentarmi in una diagnosi freudiana dello stridente lapsus. L’imbarazzo suscitato dal meccanico rewind aprì in me l’improvviso tunnel di un antico ricordo.
Gita domenicale, fuori stagione. Villetta al mare, proprietà di amici dei miei genitori. A giudicare dalla scarsa nitidezza delle immagini non dovevo avere più di sei o sette anni. Ricordo l’interno di quella casa quasi fosse stata una barca. Gli adulti stavano fuori, sotto al pergolato dell’ingresso, ovvero la prua; io invece ero più incuriosita da quell’atmosfera così intima e calda, al riparo dalla luce invadente del pomeriggio e soprattutto dal tipico timbro di voce dei miei, quando erano in vena di millantare la perfezione del loro -nostro- guscio domestico.
Ma le mura, e soprattutto gli arredi di quell’ambiente parlavano da soli! Quella casa era veramente un nido, una noce di legno, scuro come occhi.
Proprio quegli occhi che, inaspettatamente, mi stavano fissando da un po’.
- Come stai, Martina?
Per ovvi motivi, a quell’epoca nessun lapsus che tenga avrebbe potuto portarmi a rispondere: “Sana e salva, grazie! E tu?”. Infatti, non risposi nulla. Continuai a fissare l’iride ambrato di mogano rotondo e liscio, le labbra aperte d’un sorriso vivo e ampio e le ginocchia forti, piegate solo per me, per osservarmi più da vicino, e per acconsentirmi di conservare poi il ricordo di quella finestra rimasta incantata anche col passare degli anni.
Lo sconosciuto mi rapì il viso tra le mani e trionfò con un bacio tra i miei capelli ancora arruffati dal lungo viaggio in macchina. Poi volò via, su per le scale. Ma non con l’atteggiamento di qualcuno che avesse di meglio da fare, no. Mi lasciò sola per permettere che mi ambientassi autonomamente. Non si stava liberando di me, al contrario: stava liberando me dal gravo di una circostanza.
Doveva essere il figlio maggiore. Nonostante non ricordassi quel ragazzo, avevo ormai preso coscienza del fatto che molti amici dei miei potessero avermi vista soltanto una volta, magari al battesimo o ad uno dei primi compleanni. Comunque, sebbene io non lo avessi riconosciuto, lui mi conosceva già, e sapeva anche il mio nome! Ma soprattutto, dava l’impressione di non subire l’onere della nostra presenza estranea.
Passò un tempo indeterminato, o forse in questo punto il ricordo perdeva di consistenza. Probabilmente continuai ad osservare ogni dettaglio, finché la mia attenzione non venne catturata da un acquario ovale con all’interno il pesce rosso più grande che avessi mai visto! Galleggiava immobile e mi fissava rilassato, come se potesse leggermi nel pensiero. Da piccola ignoravo che anche gli uomini fossero degli animali. Nelle storie lette prima di andare a dormire i protagonisti spesso erano proprio gli animali, ma io avvertivo sempre un senso di superiorità. Era come se percepissi l’irrealtà di quei caratteri antropomorfi. E la mia alterità.
All’improvviso sentii dei passi di corsa provenire dalle scale e riconobbi per la prima volta il richiamo della libertà. Che disse soltanto questo:
-Vado a fare una passeggiata, torno tra un po’! Così poi mi racconti che vi siete detti tu e Cleo!
Cleo! Come il pesciolino del cartone di Pinocchio! Quello che danzava insieme a Figaro quando gli orologi a cucù segnavano lo scoccare dell’ora!
Quanto mi piaceva quel nome.
L’uscita di scena del mio amico attirò inevitabilmente su di me l’interesse generale.
- Martina! Vieni qua fuori, dai, non ti sei neanche fatta salutare!
Mi reclamavano, seppure a scoppio ritardato. Dovetti onorare i miei ospiti per l’invito rispondendo a tutte quelle domande che solitamente si fanno ai bambini non così piccoli da non capire nulla ma neanche così grandi da capire tutto.
Ormai il pomeriggio era stato scansato da un imbrunire precoce, al quale l’estate mi aveva disabituata. Il cielo si rabbuiò, ma non soltanto perché si era fatto tardi: Il tramonto aveva portato con sé un plotone di nubi corpose. E fu subito temporale.
Ci rintanammo dentro, nell’antro di quella caverna primordiale immersa nel verde del quartiere residenziale. Era giunto il momento del caffè, che per me corrispondeva alla merenda.
Mi annoiavo, e Libertà non tornava. Iniziai a domandarmi dove fosse, con tutta quella pioggia. Avevo come la sensazione che mi avesse imbrogliata, e l’amaro presentimento di una promessa infranta: non avrebbe fatto in tempo a salutarmi prima della partenza. Inoltre, sapevo che i ragazzi grandi non dovevano chiedere il permesso per ritornare tardi.
Dopo un’ora, o forse meno, smise di piovere. Lentamente ci avvicinammo tutti verso la porta d’ingresso ad osservare il cielo, come timide lumache. Proprio in quell’istante si sentì il suono di una scia percorsa sulla ghiaia e vidi Libertà che poggiava la bicicletta contro la palizzata di fronte e si avvicinava felicissimo verso casa. Era completamente intriso d’acqua. E rise così di gusto nel vederci al riparo che quasi provai un senso di primitiva vergogna.
Con la sua risata, Libertà mi aveva appena insegnato la disobbedienza. E forse, anche qualcosa di più.
Rimase lì in piedi davanti a noi, e prese a raccontare del suo mondo universitario (“università”: da piccola questa parola suscitava in me invidia, bramosia forse) e i miei erano davvero felici mentre parlavano con lui. Nessuno sembrava far caso alle gocce che dai capelli gli colavano sul viso. Questa anomalia mi insospettì. Non lo rimproverarono! Anzi, sembravano tutti fieri di lui, e quell’energia che aveva affascinato me per prima infondeva negli altri un forte senso di rispetto.
Mentre loro continuavano coi discorsi da adulti, nei quali avevano invischiato anche il mio amico segreto, riprese lentamente a piovere. Come se il cielo avesse ancora qualcosa da dire. Ma nonostante ciò, la conversazione proseguì indifferentemente sotto al pergolato, fino a che …
Approfittando della generale distrazione, sfruttai l’ignara complicità di Libertà. Lentamente, con la pazienza di ogni monelleria che si rispetti, mi allontanai da loro, avvicinandomi sempre più alla fine della tettoia. Finalmente, sentii le prime gocce arrivarmi alle caviglie, poi sui capelli, infine sulle mani aperte, verso il cielo. Passarono infiniti secondi. Soddisfatta fradicia, riuscii solo a dire:
-Perché non venite qui a parlare? È bellissimo!
Solo di una reazione serbavo intatto il ricordo. L’unica, che mi fossi curata di suscitare. E fu di nuovo il sorriso accogliente di una mistica intesa, suggellata da un silenzio soverchiante. Lui, forse un po’ in colpa per avermi dato il cattivo esempio, in realtà era orgoglioso di me.
Le nostre vite si erano riconosciute e scelte all’insaputa di tutti. Mi ero innamorata. E quella, fu la mia dichiarazione d’amore.